un testo di Vittorio Parisi, vice-presidente di Pigment Workroom
La capa al gioco
Poco meno di dieci anni fa eravamo a San Pio e, con la complicità di un nutrito gruppo di giovanissimi abitanti, gli artisti Alberonero, Alfano, Ciredz, Geometric Bang e Tellas trasformavano le facciate di quattro palazzine in un carnevale urbano di colori e forme astratte.
L’obiettivo era duplice, anzi, a dirla tutta, era ambiguo: da un lato volevamo anche noi cavalcare l’onda dei festival di street art – avevamo appena vinto due bandi che ci avrebbero permesso di fare qualcosa nella nostra città assieme a degli artisti nostri coetanei, che non avevamo ancora mai incontrato ma di cui eravamo già innamoratissimi – dall’altro, volevamo cavalcare quell’onda non senza prendercene un po’ gioco.
Erano anni in cui quasi ogni città aveva o voleva il suo festival di street art. Da tempo le amministrazioni cittadine sembravano aver intravisto in questo dispositivo un’opportunità per fare qualcosa di molto visibile e poco oneroso in zone urbane marginali, spesso e volentieri parlando di riqualificazione di quelle stesse aree.
Quello della street art come panacea per risolvere i problemi strutturali di quartieri che versano in stato di disagio è un luogo comune che, nel migliore dei casi, ha prodotto alcuni momenti di svago e delle opere murali destinate a sbiadire, nel peggiore ha favorito processi di gentrificazione e speculazione edilizia contro cui, di lì a poco, alcuni artisti avrebbero iniziato a lottare decidendo perfino di distruggere le loro stesse opere.
Con questa consapevolezza decidemmo che, qualunque cosa avessimo fatto a San Pio, l’avremmo vissuta con lo stato d’animo di chi scherza e non di chi si erge a salvatore del mondo. Il titolo del nostro anti-festival era abbastanza eloquente: Enziteto Real Estate. Giocavamo con l’idea assurda di essere artisti-palazzinari (scelta particolarmente azzeccata in una città come Bari) in grado di trasformare con la street art un luogo-simbolo della marginalizzazione urbana e sociale in un futuro quartiere di appartamenti di lusso. E lo facevamo assieme ai residenti, perché scherzare e prendersi poco sul serio è ancora più divertente se fatto collettivamente.
Se in questi dieci anni c’è un aspetto che più di altri ha caratterizzato il lavoro di Pigment e degli artisti con cui abbiamo avuto la fortuna di legare e collaborare è proprio quello del fare collettivamente. Del fare arte non tanto nello spazio urbano ma – prendendo in prestito il motto assai felice di uno dei più importanti e riusciti festival di street art europei, Bien Urbain di Besançon – con lo spazio urbano.
Ma cosa vuol dire fare arte con lo spazio urbano? Senz’altro, coinvolgere le comunità locali nei processi decisionali (dove intervenire, in quale strada, su quale muro) e creativi (come intervenire, cosa realizzare). Ma anche avere la lucidità di non prendersi troppo sul serio, perché – checché ne dicano certi artisti e certi politici aspiranti profeti – l’arte e gli artisti non salveranno il mondo, non risolveranno i problemi reali di nessuna comunità, non riqualificheranno mai nessuna città. Il motivo è semplice: non sono compiti che competono all’arte o agli artisti, e chi sostiene il contrario mente sapendo di mentire.
Se c’è una cosa che davvero compete all’arte e agli artisti, da sempre e per sempre, quella è giocare. Concetto sottovalutato se non addirittura ignorato da chiunque ostenti aspirazioni messianiche, il gioco è invece l’asse attorno a cui si muove tutto. Nel Novecento ce lo hanno insegnato filosofi come Kostas Axelos, antropologi come Roger Caillois e storici come Johan Huizinga. Oggi ce lo ricordano – nel bene e nel male – la gamification e il gaming, ed è sotto gli occhi di tutti come i videogame siano dei potentissimi strumenti per creare mondi e realtà parallele, talvolta con gradi di complessità tali che non avremmo potuto immaginare fino a pochi anni fa.
È attraverso il gioco che l’essere umano, bambino, impara a innamorarsi del mondo e a trasformarlo. E la città è il terreno di gioco che l’essere umano, adulto, ha eletto a suo terreno di gioco favorito.
Dieci anni dopo Enziteto Real Estate, si rimane fedeli a questo principio, con la capa al gioco. Stavolta unendo l’arte urbana e gli sport a squadre – nella fattispecie il basket – per ripensare ancora una volta collettivamente l’identità dell’Accademia del Cinema dei ragazzi che, fra cinema, musica, arte serigrafia, è diventato negli anni uno dei più entusiasmanti laboratori di creatività della città.
L’idea di Kick-off è nata proprio durante il nostro anti-festival, chiacchierando con Fabio (Tellas), Luca (Alberonero), Mattia (Geometric Bang), Robi (Alfano) e Robi (Ciredz), nelle pause tra una “murata” e l’altra. Rimasta a lungo nel cassetto, non vedevamo l’ora di realizzarla assieme a loro, sempre a San Pio.
Sul campo dipinto da Marioiks giocheranno due squadre, i Magmas e i Rayos, le cui identità, i cui simboli e i cui colori sono stati pensati dalle ragazze e dai ragazzi di San Pio, creati assieme agli artisti e declinati attraverso divise di gioco e bandiere cucite a mano.
Anche stavolta, non un festival, ma una festa. Buon divertimento, e buon gioco a tutti.
Vittorio Parisi, co-founder of PWR Bari
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Kick-Off è una operazione cofinanziata dal POR PUGLIA FSE 2014-2020, Asse Prioritario IX – Azione 9.3 “Attività di sostegno artistico e culturale all’utenza degli Hub ACR e SPAZIO13 nell’ambito del progetto “BARI COMMUNITY HUB – PARTE FSE”